Un italiano su sei è climatariano -

2022-07-01 18:22:09 By : Mr. Kevin Ye

Un italiano su sei è climatariano (presto sulle etichette alimentari il consumo di CO2) di Martina Coscetta (pubblicato su huffingtonpost.it il 9 novembre 2021)

Per fare 1 kg di manzo si liberano 60 kg di anidride carbonica in atmosfera. 24 kg di CO2 emessa per 1 kg di agnello. 5 kg per uno di pesce allevato, 3 kg per uno di pesce pescato. E poi gli alimenti di origine vegetale: 1.4 kg di anidride carbonica per ogni kg di grano e pomodori, poco meno di 1 per i piselli, 4 etti di CO2 per kg di mele e 3 etti per i limoni. In altre parole: mangiare senza essere consapevoli di ciò che si porta in tavola può avere un grande impatto sull’ambiente. È questa la premessa da cui partono le scelte alimentari dei “climatariani”, coloro che tramite le propria alimentazione contribuiscono alla lotta contro il cambiamento climatico e cercano di ridurre l’impatto ambientale. In Italia e nel mondo sono sempre di più, e stanno rivoluzionando il mercato. “L’offerta si sta sempre più adeguando a questa domanda, e in giro per il mondo sono in corso già diverse sperimentazioni”, dice ad HuffPost Albino Russo, direttore generale di Ancc-Coop (Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori).

L’esperto spiega che l’università di Oxford, per esempio, sta sperimentando le prime produzioni di etichette “green” che indicano, con un range con di colori, l’impatto ambientale del prodotto. In Italia i tentativi sono più deboli, ma cominciano a esserci. “Già sei anni fa – racconta Russo – a Expo 2015 noi di Ancc-Coop avevamo indicato l’impronta carbonica dei prodotti esposti nel supermercato del futuro che gestivamo”. Si chiama “climate labeling”, l’”etichetta alimentare” che riporta tutti i dati che stimano l’impatto dell’intero ciclo vita di un alimento: l’anidride carbonica emessa, l’energia impiegata, i km percorsi.

Un esperimento interessante in Italia lo sta conducendo il “Frantoio Muraglia”, che in Puglia produce olio extravergine di oliva di altissima qualità e a impatto zero, nel totale rispetto della biodiversità. Su richiesta, compilando un form sul loro sito online, è possibile ricevere l’intera tracciabilità di ciascuna bottiglia di olio prodotta. Un progetto all’avanguardia nel Belpaese, che segnala la volontà di adattarsi alle scelte alimentari dei climatariani. Le bottiglie di olio evo firmate Savino Muraglia oggi si trovano sugli scaffali di quaranta Paesi.

Dal Regno Unito arriva invece l’esperienza di Tesco, una catena di negozi di generi alimentari. Nel gennaio 2007, l’amministratore delegato di Tesco, Sir Terry Leahy, ha promesso “una rivoluzione nel consumo verde”. L’azienda si è impegnata ad apporre etichette di carbonio su tutti i loro 70mila prodotti, tra cui succo d’arancia, carta igienica e latte.

Ma anche negli Stati Uniti i primi tentativi di rivoluzionare il mercato alimentare in questo senso non mancano. Starbucks ha sviluppato una sua app che verifica la tracciabilità dei suoi prodotti, ma anche H&M con Loop, un complesso macchinario che recupera i filati dai capi vecchi per farne di nuovi, senza l’uso di acqua e additivi chimici. La catena Just Salad ha introdotto menù climate-ecofriendly. Panera Bread, compagnia di bakery-cafè e fast restaurant aiuta i clienti a identificare le voci carbon free. Whole Foods, catena di supermarket con 500 negozi, in Italia su Amazon Prime, segnala l’aumento di prodotti confezionati che utilizzano parti trascurate (gambi, foglie, radici).

“Non è affatto una moda passeggera. Il climate change è un problema che accomunerà la popolazione mondiale nei prossimi decenni e determinerà le nostre scelte alimentari. Si sta andando sempre più verso questa direzione. In futuro, le aziende investiranno in queste certificazioni e l’offerta si adeguerà”.

Anche se, come spiega Russo, costruire la cosiddetta etichetta climatica non è cosa facile. “Bisogna avere una contabilità climatica lungo tutta la filiera. Online si trovano molti counter, che indicano la quota di carbonio emessa, ma si tratta di medie mondiali. È molto più difficile calcolare la quantità di carbonio emessa per singolo prodotto, dove sono presenti anche 20 o 30 materie prime differenti. Tracciare la filiera, avere contezza delle emissioni dei singoli fattori produttivi di quel prodotto, quanta energia, quanto riscaldamento negli stabilimenti, non è facile. C’è chi dice che la blockchain potrebbe aiutare a tracciare questi elementi”.

Uno studio dell’Università di Yale ha spiegato che ben il 30 per cento delle emissioni di carbonio è dovuta a quello che coltiviamo/mangiamo, contribuendo così alla deforestazione e al consumo del suolo. Il Rapporto Coop 2021 ha messo in luce proprio come la nuova cultura del cibo, in Italia e specialmente dopo la pandemia, stia passando dal clima: la pandemia ha cambiato le abitudini alimentari di un italiano su due, il 26 per cento della popolazione sta riducendo o eliminando il consumo di carne, e ben il 15 per cento ha affermato di essere “climatariano” nell’ultimo anno. Nello stesso periodo di tempo, 7,4 milioni di italiani hanno dichiarato di seguire una dieta “zero-waste”.

Gli investimenti globali in cibi e bevande di prossima generazione ammontano a 6,2 miliardi e tra le new entry sulle tavole degli italiani, da qui a dieci anni, ci sono cibi a base vegetale con il sapore di carne, cibi a base di alghe, farina di insetti e anche la carne coltivata in vitro. Ma c’è di più. Secondo uno studio dell’Università di Copenaghen, pubblicato sulle pagine di Food Policy, “anche chi si dice poco interessato a conoscere l’impronta carbonica del cibo che mangia, se messo davanti a prodotti analoghi con etichetta climatica, sceglie sempre quello che ha emesso meno CO2 prima di arrivare sullo scaffale”. Una tendenza, dunque, che sembra convincere fino in fondo anche i più indecisi.

La scelta “climatariana” sembra essere seguita soprattutto dalla Gen Z o Zoomer, i giovani nati tra il 1997 e il 2010. Questi nuovi consumatori hanno un potere di spesa a livello globale di 150 miliardi di dollari, per questo le aziende cercano sempre più di intercettarne i consumi.

Secondo una indagine di Innova Marketing Insights pubblicata su Food Industry Executive, nei prossimi anni ci sarà un boom di cibi plant-based con una crescita del 20 per cento entro il 2024. Secondo WGSN’s Nielsen il nuovo trend è il climate smart food: le aziende quindi investiranno nelle certificazioni. Come riporta il Corriere della Sera, secondo Elena Marinoni, Senior Trend Researcher di Nextatlas, una piattaforma di data intelligence, tutto ciò che ruota attorno al Reduce-Reuse-Recycle (cibo sfuso, km zero, pack sostenibili) crescerà del 10 per cento nei prossimi sei mesi. Una recente indagine della no-profit Carbon Trust certificava che oltre due terzi dei consumatori in Francia, Germania, Spagna, Italia, Regno Unito e Usa sarebbero a favore dell’introduzione dell’etichettatura carbonica, che potrebbe migliorare la loro esperienza di acquisto.

Si sta andando sempre più verso questa direzione, dunque, e oggi non è assurdo pensare che presto, al posto delle calorie, su molte confezioni nei supermercati troveremo indicata la quantità di CO2 emessa per quel prodotto.

La chiave di svolta la da chi non si serve ai supermercati, ma si reca direttamente dai piccoli produttori che, non solo riducono al minimo l’inquinamento evitando persino etichette, colle e inchiostri, ma che offrono la possibilità di visitare le aziende da cui provengono i prodotti verificandone l’autenticità e bontà.   Il salto lo faremo, finalmente, quando smetteremo di affidarci ad altri per sapere se qualcosa sia buono o sbagliato per noi e cominceremo ad attivare il nostro spirito d’osservazione e quello critico che ci permettono di scegliere al meglio. Direi che già indossando la maschera (anche se “museruola” sarebbe un termine più appropriato), la gente in città riduce la quantità di ossigeno utilizzata…

Marcello, giuro che non sono stato io a scrivere sui muri: non sono mai stato a Corvara! 😀

Cominetti = merdariano (scritta trovata sui muri di Corvara)

Dimenticavo! Da amici pastori sardi prendiamo dei prosciutti ottenuti da maiale ruspante semiabusivo con peste suina (ovviamente) che fanno resuscitare i morti. E, come diceva un personaggio di Eccezziunale Veramente (prima versione): dobbiamo festeggiare, stappiamoci un Pata Negra! Merde, sempre più merde.

Poi, per far arrivare le banane sulle nostre tavole, usano le navi. Non inquinano’ calcolata quella produzione di CO2? Gli americani cambiano abitudini alimentari? Mi fa ridere, ma tanto poi vanno a comprare l’insalatina eco-friendly con il pickup da 5000 cc… E così via. Fino al (fasullo) km zero: tanto devo usare l’auto per andare a prendere il cibo dal contadino, o lui il furgone per portarmelo a casa. O per portare i suoi prodotti al mercato contadino, dove tiene acceso il generatore perché d’inverno fa freddo e stare ore al freddo è duro… 

Visto che vanno di moda le classificazioni (anche le discriminazioni ultimamente non scherzano, Vegetti beccate questa, tiè), sto cercando di capire dove inserirmi. D’estate faccio l’orto irrigandolo con un secchio che riempio all’abbeveratoio distante 30m. Riscaldo casa bruciando esclusivamente legna che raccolgo nel bosco distante ca 8 m. dove da dopo vaia ci sono tronchi per l’eternità, anzi se ti porti via la legna contribuisci a ripulire il bosco e a limitare un po’ la diffusione del bostrico tipografo. Consumo lo speck che produce in casa un mio vicino e le poche uova che mangiamo vengono dalle galline di una mia vicina. La quale le nutre con granoturco e avanzi vari che impasta con pane e acqua: una cosa deplorevole all’occhio del sistema. Ogni tanto vado anche al supermercato perché gli agrumi che ci regala mia suocera, che ha un frutteto sul monte di Portofino che ne produce a quintali, finiscono… Ci approvigioniamo di mele da un contadino di Ora distante 1 ora di macchina, ma ci passiamo solo quando dobbiamo andare da quella parte per altri motivi. L’olio d’oliva è siculo perché un amico di mia moglie ce lo porta a casa da anni e si offende se non lo accettiamo. Andando a piedi qualche minuto c’è la latteria che produce formaggi spaziali per gusto e qualità con il latte delle vacche che brucano l’erba sui prati intorno a casa..  dovreste vedere e sentirne l’odore,  delle merde che fanno concimando il pascolo per la fienagione prossima. Potrei continuare con molti altri alimenti…. CLASSIFICAZIONE: merde umane senza etichetta. Ma con grinpas, eh?!

Caro Matteo, tanto per capire nel micro l’entità del problema macro:provincia di Brescia, inceneritore che si continua a chiamare erroneamente termovalorizzatore (in linea diversi articoli sulle denunce nei confronti di questa fonte continua di inquinamento). Ah sì i famosi rifiuti di Napoli, dopo un bel giro in Germania sono arrivati qui. Uno dei tanti articoli (https://www.bresciatoday.it/cronaca/a2a-inceneritore-rifiuti-speciali.html)Nel frattempo si fa la differenziata. La gente impara a dividere i rifiuti e scaricarli negli appositi cassonetti. Chiavette con codice, cassonetti stile slot machine con leve levette e display…Ma non basta… arriviamo tre anni fa alla differenziata porta a porta… poco male no!? No. Oltre ad avere la casa intasata di cassonetti che sarebbe il male minore, non si tiene conto che in questa provincia esiste una folla di non residenti, di clandestini (termine che mi sta sulle balle ma che in questo caso definisce una situazione sociale esistente), che abitano pagando affitti abusivi in case dichiarate non abitate e quindi alle quali il servizio non arriva.Epilogo (almeno per il momento) scontato: sacchi di immondizia ovunque, negli angoli prativi, nei canali d’irrigazione, sul bordo strada…I cattivi ovviamente sono loro, quelli che scaricano i rifiuti per la strada invece di tenerseli in casa… ed intanto però l’inceneritore continua a bruciare tonnellate al giorno e le inchieste in proposito continuano ad attendere…Ma non basta eh… nel mentre fioccano multe per un foglio di carta nel “cestino” sbagliato, Lumezzane, paese industriale posto in una piccola valletta che si trascina verso la più grande Val Trompia e la piana bresciana, vengono stoccate nel 2008 alcune tonnellate di cesio 137, ma non in ambiente idoneo… nel magazzino di una fabbrichetta in centro paese…! Da allora tra frizzi e lazzi, si è costruito un bunker in cemento per lo stoccaggio definitivo (sempre in mezzo alle case eh…) che non convince nessuno (https://archivio.edv24.it/2011/03/10/cesio-la-gente-di-lumezzane-e-scettica-sul-bunker-della-rivadossi/).Ma la colpa è sempre di chi non fa bene la differenziata…O sarà magari di quegli ignoranti che continuano a cucinare lo spiedo con la brace…E’ uno sport ben noto, specialmente in Italia quello di creare un falso problema per nascondere il problema reale

Articolo un po’ superficiale ma che punta il dito su un problema serio, cercando di tradurre l’impatto della specie umana in termini comprensibili. Ovviamente l’idiota che non capisce c’è sempre.   Temo però che da solo l’approccio “climatariano” e volontaristico dei singoli possa servire a poco e in realtà il tutto si risolva in un green-washing della coscienza e permetta di sentirsi virtuosi, continuando ad accettare un sistema che inventerà inquinamenti differenti e inutili per perpetuarsi.  

“Mi chiedo se giornalisti di questo tipo si rendano conto del servizio che fanno al declino”. Sono capaci di risponderti: “Noi riferiamo solo i fatti”. Senza dignità.  

Alé! E un’altra etichetta è creata. Climatariano… e non solo, sulla scia di questa etichettatura, cambia il settore del marketing dei prodotti…  L’intossicazione mediatica è ai massimi livelli ed evidenzia una totale saturazione del sistema capitalistico relativo a consumo-produzione.  Quindi invece di ipotizzare politiche di riduzione dell’impatto ambientale dovuto alle attività umane, sono i consumatori che si devono adeguare, creando pure un’ulteriore spaccatura sociale.  Il nemico perciò non sarà più quello o l’altro governo, che rifiuta di aderire a protocolli d’intesa tipo Kioto, per capirci (che già di per se era una presa per i fondelli epocale), ma quelli che rimangono ancorati al consumo “tradizionale”, magari per impossibilità dovuta a risorseeconomiche precarie.  Via libera quindi alla prossima tranche di haters, nei confronti magari delle popolazioni di tipo tribale che (brutti bastardi) accendono il fuoco per cucinare…  Mi chieco se giornalisti di questo tipo si rendano conto del servizio che fanno al declino, ormai insrrestabile, dell’umanità…

Vorrei chiedere a questi “climatariani” se, quando entrano nelle loro case, d’inverno, spengono il riscaldamento, si lavano con l’acqua fredda e magari cenano con i loro alimenti a basso impatto carbonico, a lume di candela..  Quanta imbecillita’ e quanta ipocrisia! 

E per fare 70 kg di essere umano quanti kg di anidride carbonica si liberano? … … … Stiamo raggiungendo livelli tali di idiozia collettiva che presto, prima di mettere al mondo un figlio, si calcolerà la quantità di anidride carbonica di cui questi sarà responsabile nel corso della vita. Beninteso, oltre a quella emessa dai suoi genitori durante il concepimento.   Il mondo sta diventando una gabbia di matti…

Non è uno studio tecnico, una dimostrazione, un calcolo. È una filosofia, un paradigma o l’altro che fanno questo o un altro mondo. Se resta capitalistica, resta anche predatoria. Il fumo negli occhi le serve sempre.

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