"Lilo & Stitch" l’esperimento irripetibile di Disney - Fumettologica

2022-07-01 18:18:57 By : Ms. Lily Li

«Mi capita di vedere le cerimonie di premiazione e ci sono i vincitori che spesso dicono “grazie per aver creduto in questo film, è stato un azzardo”. E io una volta pensavo “Davvero? Quel film è stato un azzardo?”» Chris Sanders, co-regista e co-sceneggiatore di Lilo & Stitch inizia a raccontarmi questo aneddoto dalla sua casa in California con una parlantina al fulmicotone e un generale senso di euforia che svaniscono poco dopo, quando prosegue dicendo che «ora, col senno di poi, è la cosa più sensata da dire. Ogni film che vede la luce del sole è stato una scommessa, in qualche modo. Il fatto che sia arrivato su uno schermo è già una vittoria».

Sanders ne sa qualcosa. In forza alla Disney fin dagli anni Ottanta, aveva visto lo studio d’animazione chiudersi a qualsiasi forma d’innovazione e avrebbe concluso la sua carriera in Disney allo stesso modo, con i dirigenti troppo intimoriti per dare il via libera al suo American Dog, una storia che mescolava Snoopy e Hunter S. Thompson. Eppure, tra le tante dimostrazioni di chiusura mentale, o paura, da parte dello studio, Sanders riuscì a far passare un piccolo film un po’ strano su una bambina asociale e su un mostriciattolo con tendenze genocide, Lilo & Stitch, uscito nel giugno 2002.

Classe 1962, dopo gli studi alla CalArts (la scuola punto di riferimento per chiunque volesse intraprendere una carriera nell’animazione), negli anni Ottanta Chris Sanders iniziò a lavorare per Marvel Productions e poi per la Disney. Lo studio stava vivendo un periodo nero dal punto di vista di popolarità e verve creativa. Non c’era (ancora) il desiderio di stravolgere le consuetudini. Ed era una cosa che Sanders, descritto dal produttore Clark Spencer «energetico, super entusiasta, con quel tipo di entusiasmo che rimbalza sulle pareti», mal sopportava. Così sporse un reclamo formale.

«Chiunque poteva scrivere i propri suggerimenti, che sarebbero poi stati stampati e distribuiti a un ritrovo aziendale a cui io non partecipai» spiegò Sanders. «Erano centinaia di pagine di lamentele. Immaginavo che nessuno si sarebbe messo a leggere tutta quella carta così creai una storia illustrata nella speranza che avrebbe attirato l’attenzione.»

Il reclamo assunse la forma di The Big Bear Aircraft Company. A Book for the Big Retreat (“La compagnia aerea del Grande Orso. Un libro per la grande riunione”), una storia illustrata in cui, con la metafora di un orso a capo di una compagnia aerea che impedisce ai suoi ingegneri di costruire veicoli all’avanguardia, Sanders lamentava l’assenza di coraggio da parte dello studio e la scarsa fiducia che i dirigenti riponevano nelle nuove leve, costrette a lavorare seguendo la tradizione, invece di innovare. Non si sa se il racconto, tanto buffo nei disegni quanto brutale nella critica al sistema, venne letto al ritrovo ma di certo circolò tra gli addetti ai lavori. A distanza di anni, Sanders ricevette diverse richieste per poterlo utilizzare alle riunioni aziendali, tra cui una della Lockheed, la storica industria aerospaziale statunitense.

Negli anni Novanta, Sanders lavorò con ruoli sempre più importanti in produzioni Disney come Bianca e Bernie nella terra dei canguri, La bella e la bestia, Il re leone, finendo poi per diventare head of story (responsabile dello sviluppo della storia) di Mulan. Il suo contributo al film fu talmente sostanziale che fu accreditato come sceneggiatore, una pratica molto inusuale per l’epoca. Nel frattempo, Disney aveva in qualche modo recepito il suggerimento di Sanders, entrando nel periodo d’oro noto come Rinascimento Disney. Il filotto di successi stava però portando a una nevrosi di continui giochi al rilancio.

Sanders racconta a Fumettologica che nel 1997 presenziò alla festa di fine lavori di Hercules e si trovò a bere con Michael Eisner, l’amministratore delegato della Walt Disney Company. «Eravamo in piedi a un tavolo e a un certo punto lui fece un giro per trovare altra gente con cui socializzare. Tornò un paio di minuti dopo: non conosceva nessuno. Ricordo che disse “Penso che queste cose siano diventate troppo grandi”. Stava probabilmente parlando delle feste, ma nelle sue parole c’era un sottotesto evidente, perché Hercules era stata l’ennesima produzione in cui il budget era aumentato rispetto al film precedente.»

Forse anche ispirato da quel gargantuesco dispendio di risorse di cui era stato testimone, e dalla flessione al botteghino dei loro ultimi blockbuster, Eisner organizzò un ritrovo aziendale nel meleto di famiglia, nel Vermont, proponendo di mettere in cantiere film più piccoli, meno costosi, che diventassero «i Dumbo della nuova generazione» (quello con l’elefantino era stato un film realizzato al risparmio, in un momento di profonda crisi economica dello studio). Sanders vide materializzarsi i suggerimenti contenuti in The Big Bear Aircraft Company con la proposta di realizzare un film più piccolo e libero, che non fosse obbligato a spuntare tutti i requisiti dei musical Disney (produzioni colossali, tempi lunghi, storie dal respiro epico).

Sanders si offrì di sviluppare un’idea che aveva avuto nel 1985 per un libro illustrato che non era andato in porto: la storia di un alieno orfano, Stitch, che vive nella foresta ma non viene accettato dagli altri animali nel loro gruppo. Thomas Schumacher, all’epoca presidente degli studi d’animazione, accolse lo spunto ma suggerì una trama che avesse al centro il rapporto tra l’alieno e gli umani perché «lo spettatore percepisce il mondo animale come alieno e non ci vedrebbe la differenza».

Sanders fece allora diventare Stitch il leader di una gang di alieni che piomba sulla Terra per consegnare alla giustizia i suoi amici fuggiaschi e fa la conoscenza di una bambina. Come suo solito, l’autore corredò il soggetto con una serie di illustrazioni di modo che «tutti quelli che avrebbero letto la proposta vedessero quello che vedevo io nella mia testa. Quando dici “alieno” la gente si crea determinate immagini mentali. Il mio pensiero fu “d’accordo, se devono dire di no a questo film, almeno che dicano di no al film giusto”. 

Stitch, che nella versione del 1985 era un ibrido di varie creature, fu ripensato come un alieno a metà strada tra un cane e un anfibio le cui proporzioni inusuali gli diedero un aspetto fresco e diverso dal solito. «Uno degli elementi più importanti» aggiunge Sanders, «era l’assenza di pupille. Stitch ha questi grandi occhi neri che non furono accettati subito da tutti, ma che per me erano fondamentali. Calvin e Hobbes non hanno pupille, Snoopy non ha pupille, il Topolino delle origini non ha pupille. Questi occhi tutti neri rafforzavano l’intensità dello sguardo e, anche quando Stitch non faceva niente, aveva un’espressione intensa, vagamene minacciosa.»

Schumacher diede luce verde alla produzione, a una condizione: il film avrebbe dovuto avere lo stesso stile dei disegni di Sanders. Questo portò il regista a scegliere la tecnica d’animazione tradizionale perché «sapevo che il mio stile di disegno non si sarebbe adattato al digitale. È come se cercassi di fare Snoopy al computer. È un personaggio che funziona solo in due dimensioni. Lilo ha una testa enorme che in un disegno a matita funziona, mentre in un modello digitale… Funziona meno».

L’idea di utilizzare lo stile di Sanders si inseriva nel generale atteggiamento stilisticamente lassista di quel periodo: se per decenni la linea Disney aveva dominato la gran parte delle produzioni, a partire dalla metà degli anni Novanta, i dirigenti lasciarono che i registi sperimentassero con stili fuori dai canoni – che andavano comunque riportati all’interno di parametri disneyani, generando spesso strani ibridi. Hercules, per esempio, era costruito attorno al segno di Gerald Scarfe, e Atlantis – L’impero perduto si basava sullo stile di Mike Mignola. Ma questi erano autori conosciuti nel proprio settore chiamati a collaborare con la produzione, Lilo & Stitch invece, in maniera più unica che rara, sarebbe stato realizzato con lo stile di un interno che prevaleva sulla linea Disney. Certo, la mano di Sanders non era estrema come quella di Scarfe o Mignola e conteneva in sé una certa carineria tipica dei prodotti Disney, ma era abbastanza personale da discostarsi da tutto ciò che era stato realizzato prima. 

Quando venne a sapere che il film non sarebbe stato appiattito dall’house style ma avrebbe avuto la sua impronta, Sanders cadde dalle nuvole: «ah, perché io ho uno stile?». La disegnatrice Sue Nichols fu incaricata di creare un libro guida che analizzasse e scomponesse lo stile di Sanders per creare un insieme di regole e riferimenti comuni per tutti gli animatori: Surfing the Sanders Style, in cui si stabilirono i principi visivi della pellicola. «Nessuno era più interessato a leggerlo di me» commenta Sanders. «Mi aprì gli occhi su tutto quello che facevo. Non mi ero mai reso conto, per esempio, che disegno i corpi dei personaggi come sacchetti di farina in cui il peso è tutto sul fondo. O che disegno zampe e artigli come un’unica forma, senza separarli.»

A differenza dei precedenti cartoni Disney (Le follie dell’imperatore e Atlantis, ma anche Tarzan per certi aspetti), Lilo & Stitch è un film che abolisce il concetto di spigolo. Ogni angolo è smussato in favore di una morbidezza che ammanta tanto i personaggi, quanto gli ambienti, gli oggetti e perfino gli effetti come spruzzi d’acqua, fuoco, fumo o esplosioni, che hanno una consistenza lavica descritta come «un sacchetto pieno di melassa che esplode». Quando gli animatori disegnavano qualcosa, dalla macchina fotografica all’astronave aliena, dovevano immaginare di soffiarci dentro con una cannuccia e sconquassare ogni angolo.

L’altra grande, enorme, decisione stilistica era meno evidente ma comunque cruciale. Durante una riunione, l’art director Ric Sluiter suggerì di realizzare gli sfondi con l’acquerello, per assecondare la linea morbida dei personaggi. Gli sfondi ad acquerello erano stati utilizzati soltanto negli anni Quaranta, per Biancaneve e i sette nani e Dumbo, ma si erano rivelati troppo difficili da realizzare e, da allora, Disney aveva sempre optato per degli sfondi con la gouache (o guazzo), una pittura a tempera simile all’acquerello ma, a differenza di quest’ultimo, opaca, più veloce ad asciugarsi, resistente e magnanima dei confronti delle sviste.

«Appena Ric uscì dalla stanza» ricorda Sanders, «si rese conto del peso che quell’idea gli aveva fatto piombare addosso. Si trattava di riscoprire una tecnica che lo studio aveva dismesso 60 anni prima. E bisognava essere degli assi della pittura perché è quasi impossibile correggere un acquerello, se si fanno degli errori». Sluiter e i membri del reparto sfondi richiamarono dalla pensione Maurice Noble, uno dei grandi pittori che aveva lavorato a Biancaneve e i sette nani, per essere sicuri di stare facendo tutto nel migliore dei modi, ma lo sforzo valse la pena, dando un notevole valore aggiunto al film.

L’acquerello è traslucido e, a differenza dalla gouache, opaca e compatta, dà una sensazione di luminosità anche ai colori più scuri. Le scene del film sono pervase dalla luce, c’è questa sensazione di chiarore diffuso che fa sembrare il film un oggetto leggerissimo.

Quando trapelò la notizia, un membro dello studio in California disse con sprezzo che «vi renderete conto che sono impossibili da fare, e non sono certo che noi californiani potremmo salvarvi le chiappe». A film ultimato, quella stessa persona andò da Sanders per chiedergli come erano riusciti a realizzare quei fondali così belli.

Per scrivere la storia, a Sanders si affiancò Dean DeBlois, storyboardista che Sanders aveva conosciuto durante la lavorazione di Mulan. Sanders ricorda che «dopo che Dean e io mettemmo in forma di storyboard la prima bozza, Tom disse “Mi piace davvero tanto questo film, ma la storia, la sua magia, è così fragile che dovrà passare molto tempo prima che si irrobustisca abbastanza per reggere le note e i suggerimenti dello studio. Lo dobbiamo nascondere”. Ed è esattamente ciò che fece». Per diverso tempo, ogni volta che il film saltava fuori durante una riunione, Schumacher schivava le domande, tergiversava, diceva che era un’idea ancora in fase di sviluppo. E anche quando il film entrò nel vivo della produzione, una serie di fattori (tra cui il fatto che la lavorazione avveniva nello studio satellite in Florida) gli permisero di passare inosservato. Lo stesso Michael Eisner vide per la prima volta il film a una delle ultime proiezioni di prova.

Se in un film d’animazione normale la storia viene sviscerata da un gruppo di lavori comprendente, oltre al regista e allo sceneggiatore, molti storyboardisti che contribuiscono con spunti, dinamiche, idee, gag e messe in scena, Lilo & Stitch rimase un affare di una manciata di persone. La scelta era coerente con l’idea del piccolo film laterale ma fu anche logistica. «Cominciammo a lavorare con quatto o cinque soggettisti» ricorda Sanders, «ma siccome eravamo in Florida, e loro venivano dalla California, restarono per un breve periodo e poi se ne tornarono allo studio principale. Alla fine delle produzione eravamo solo io e Dean a lavorare.»

Costretti a fare le ore piccole, oltre alla normale tabella di marcia, i due si ritrovavano a disegnare storyboard fino alle tre del mattino per poterli poi presentare qualche ora dopo. Sanders ricorda che «se avevo quindici minuti liberi, riuscivo a dormire per tredici di quei minuti. Mi ero allenato ad addormentarmi all’istante».

I due registi riuscirono a mantenere la loro impronta personale al film, che si avvantaggiava del contributo di tutti ma non diluiva la visione autoriale della coppia. Nella storia Disney, c’è un solo illustre precedente a Lilo e Stitch ed è La carica dei 101, un film partorito quasi interamente dalla mente di Bill Peet, autore della sceneggiatura, degli storyboard e delle prime idee di design dei personaggi. Per fare un paragone, le mansioni svolte da Peet ne La carica dei 101 erano state ricoperte da 40 persone su Pinocchio.

In corso d’opera, la storia subì alcune importanti modifiche, tra cui l’eliminazione della gang di Stitch, le sue motivazioni («era più divertente se portava distruzione per il gusto di farlo, come avesse un problema di rabbia, più che per uno scopo reale») e l’ambientazione: inizialmente ambientato nell’America rurale – perché c’era bisogno «di un posto dove l’esercito non potesse arrivare subito, dove non c’era modo di aggregare grandi folle» – fu poi spostato alle Hawaii per volere di Sanders. La nuova ambientazione fornì un elemento cruciale per l’evoluzione dei personaggi: il concetto di “ohana”, parola con cui la cultura hawaiana indica la famiglia in senso esteso, grazie a cui Stitch impara l’affezione per gli altri.

Lo studio dovette apportare un’ultima gravosa modifica nel settembre 2001, in seguito agli attentati alle Torri Gemelle. La sequenza climatica del film, in cui i protagonisti pilotano un Boeing 747 tra i palazzi della città, dovette essere cambiata a produzione quasi ultimata. E così l’aereo si trasformò in un’astronave aliena e i grattacieli in promontori e pareti rocciose.

Il risultato finale fu la storia di Lilo, una bimba eccentrica che vive insieme alla sorella maggiore Nani alle Hawaii. Le due adottano un alieno atterrato sull’isola credendolo un cane e lo chiamano Stitch. L’essere, un esperimento scientifico scappato al proprio padrone, è pestifero e poco incline a socievolezza ma svilupperà una forte amicizia con la bambina, la quale lo aiuterà a combattere la federazione intergalattica che sta cercando di eliminarlo.

Quando uscì, nel giugno 2002, Lilo & Stitch fu un grande successo di pubblico e critica, un felice singhiozzo in quella che sarebbe diventata una parabola discendente per l’animazione tradizionale. Pochi mesi prima, a marzo, lo studio aveva licenziato 200 dipendenti, per fare spazio alla nuova filiera digitale che avrebbe spinto ai margini dei settore l’animazione su carta.

«Un mio amico, che lavorò come storyboardista all’inizio della produzione, mi disse che Lilo & Stitch era la cosa più vicina a un cartone di Miyazaki che lo studio avesse mai fatto» commenta Sanders. «Sapevo che era un film diverso dagli altri, ma non all’epoca non capii e non apprezzai quanto era diverso.»

Oltre agli aspetti artistici, debitrici di una sensibilità a metà tra l’Atlantico e il Pacifico (non è un caso che Stitch sia diventato la mascotte Disney più popolare in Giappone), il film cerca di costruire dei rapporti realistici e rotondi. Quello tra Lilo, Stitch e Nani è distante dagli stereotipi stucchevoli di questo tipo di dinamiche: Stitch non si fa volere bene, è scontroso e irritante, Lilo è una bambina piena di vezzi e interessi inconsueti, tutt’altro che accomodante, la sorella Nani non riesce a essere una buona figura genitoriale.

A vent’anni di distanza, Lilo & Stitch è un film che ha retto incredibilmente bene il tempo, diventando un classico dell’animazione, oltre che un esperimento irripetibile, almeno a sentire Sanders: «se avessi fatto un’acrobazia folle con la bici quando avevi 15 anni e l’avessi filmata e ora che ne hai 30 la riguardassi penseresti “Oddio, non posso credere di averlo fatto”. La sensazione è quella. Quando penso al film penso a tutti i modi in cui qualcosa sarebbe potuto andare storto. È un miracolo che questo film sia stato realizzato».

Sanders parla con cognizione di causa. Il suo progetto successivo, American Dog, naufragò proprio perché vennero meno quelle felici convergenze che avevano reso possibile Lilo & Stitch. American Dog, la storia di un cane attore che non sa di esserlo e finisce nel deserto vivendo un’avventura folle, non era più il “piccolo progetto segreto” che dirigenti come Schumacher – nel frattempo passato a supervisionare il settore teatrale di Disney – volevano proteggere. E quando, nel 2006, John Lasseter si insediò come direttore creativo dello studio, Sanders si scontrò con le sue richieste di modifica. Quella battaglia fu vinta da Lasseter, che diede ordine di trasformare American Dog nel film oggi noto come Bolt, e Sanders passò alla DreamWorks, dirigendo Dragon Trainer e I Croods.

The Big Bear Aircraft Company, il suggerimento aziendale sotto forma di libro per bambini che aveva scritto Sanders negli anni Ottanta, si concludeva con il consiglio al Grande Orso di dare agli ingegneri le due cose di cui hanno bisogno per il loro lavoro: la fiducia di Orso e il tempo per permettere alle idee più rischiose e innovative di fiorire. «Lavoro nell’industria cinematografica abbastanza a lungo da aver capito che gran parte del successo di un film si basa sulla fortuna» dice il regista. «La fortuna di trovare la gente giusta al posto giusto, nel momento giusto. Lilo & Stitch è stato quel punto di congiunzione di tutti gli astri.»

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